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elle
sale dell' Hotel Southampton Princess di Hamilton, nelle
Isole Bermuda, la tensione si tagliava con il coltello:
Italia e USA si stavano giocando il campionato
del mondo di bridge del 1975. La finale si
stava concludendo, e il risultato era
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incerto come poche altre volte nella storia dei
campionati. Erano già state giocate 91 delle 96
smazzate, e tutto si sarebbe deciso nelle smazzate
conclusive: i giocatori erano consapevoli che qualsiasi
mossa poteva essere quella decisiva.
Diciamolo chiaramente: gli americani non sopportavano di
continuare a perdere. Era dal 1957 che il Blue Team, la
leggendaria nazionale italiana di bridge, vinceva tutti
i campionati del mondo. E per una federazione come
quella americana, che rappresentava oltre venticinque
milioni di bridgisti, era difficile accettare la
supremazia di un paese come l'Italia, in cui i giocatori
di bridge non arrivavano a diecimila.
Come
mai l'Italia era così forte nel bridge? I motivi
principali erano due. Innanzitutto, gli italiani avevano
dato una nuova dimensione al gioco, perfezionando i
sistemi di dichiarazione come mai nessuno prima di loro.
E' su
questa particolare caratteristica del gioco che gli
italiani avevano costruito la propria forza, creando
sofisticati "sistemi dichiarativi" in cui ciascuna
chiamata era codificata con precisione, in base alla
situazione di gioco e alle chiamate precedenti.
Ma i
sistemi da soli non sarebbero bastati. La lunga serie di
vittorie si doveva soprattutto ad una irrepetibile
generazione di campioni, che avevano iniziato a giocare
insieme a metà degli anni 50 e che, con poche
sostituzioni nella squadra titolare, erano ancora più
che mai in attività all'inizio degli anni 70. Eugenio
Chiaradia, Pietro Forquet, Giorgio Belladonna, Benito
Garozzo, il capitano non giocatore Carlo Alberto Perroux:
erano tutti nomi ben noti nel mondo del bridge. Solo nel
1970 e 1971 il campionato del mondo era stato vinto
dagli USA, ma solo perché il Blue Team aveva abbandonato
le competizioni. Con il ritorno alle gare, nel 1972, la
serie di vittorie era ripresa.E questo non era più
sopportabile per gli americani.
I
giocatori americani di bridge non sono mai stati
semplici appassionati, pronti ad investire tempo e
denaro nella semplice ricerca del risultato sportivo.
Negli Stati Uniti il bridge è sempre stato un fenomeno
di massa. Già dagli anni '30 i migliori giocatori
facevano del bridge una vera e propria professione:
scrivevano libri, vendendo spesso milioni di copie;
pubblicavano articoli su tutti i quotidiani e sulle
riviste specializzate; tenevano corsi di bridge e davano
lezioni private; giocavano in coppia con i loro clienti,
ai quali facevano guadagnare punti preziosi nelle
graduatorie federali. Tutte queste attività erano molto
remunerative: e più il giocatore era bravo e famoso, più
erano i titoli da lui vinti, maggiori erano i guadagni.
Si comprende bene quale valore potesse avere il titolo
di campione del mondo per un giocatore americano. Al di
là del prestigio personale, quel titolo avrebbe
significato maggiore visibilità, compensi più alti, un
maggior numero di clienti: in una parola, guadagni molto
superiori.
L'offensiva americana contro il Blue Team venne condotta
non solo sui tavoli da gioco, ma anche sulla stampa e
negli ambienti della federazione internazionale. Negli
anni 60 aveva infuriato la polemica sui sistemi
dichiarativi italiani, considerati da taluni
"artificiali" e contrari allo spirito del gioco. Questa
argomentazione era stata poi smentita dai fatti: quei
sistemi erano stati progressivamente adottati dai
giocatori di tutto il mondo, che ne avevano riconosciuto
la validità tecnica. All'inizio degli anni 70 gli
americani spostarono il tiro sulla correttezza dei
nostri giocatori, arrivando ad accusarli, prima
velatamente e poi in modo sempre più esplicito, di
trasmettersi informazioni in modo non regolamentare
durante lo svolgimento delle smazzate. La nostra
federazione non fu sempre pronta a ribattere alle
accuse, e questo creò nel mondo del bridge un'atmosfera
di sospetto nei confronti del Blue Team.
Tutto
questo accadeva alla vigilia del campionato del mondo
del 1975.
Il
campionato, a cui partecipavano anche Francia, Brasile e
Indonesia, si risolse quasi subito in un duello fra
Italia e USA, com'era ormai consuetudine da diversi
anni. Nelle prime fasi dell'incontro la squadra azzurra
apparve contratta e nervosa, a causa del polverone
scatenato dagli americani, e commise diversi errori.
Invece i nostri avversari iniziarono giocando molto
bene, e a due terzi dell'incontro erano in forte
vantaggio. Sembrava che, per la prima volta, il Blue
Team fosse sul punto di cedere le armi.
Ma a
quel punto il vento cambiò. Giorgio Belladonna e Benito
Garozzo cominciarono a macinare punti e a rimontare lo
svantaggio. Il momento decisivo arrivò a pochissime
smazzate dalla fine, quando venne giocata la mano
riportata nella figura, la numero 92:
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